Fuori dall'aula, disegno di uno spazio con tavoli e studenti che studiano. Grande difficoltà ad affrontare tanti problemi insieme: scelta di cosa inquadrare nella doppia pagina, rendere la prospettiva della stanza, ritrarre un gruppo di persone (che si spostano). Gli occhi si rifiutano di vedere e di trasmettere le informazioni corrette alla mano, compaiono i disegni stereotipati. Forse ho esagerato...
Ogni volta assegno i compiti per casa. Per questa lezione avevo detto di disegnare un oggetto col quale c'è un legame particolare e di raccontare a parole il perchè. Questo è il mio, un'ottima radio del 1968.
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vivo a Roma da cinquanta anni dopo aver imparato a “vedere” nei primi dieci in un posto (Ostia) in cui tutti i giorni, proprio tutti, almeno un paio di volte, mi capitava ( ora dico mi facevo capitare) di guardare il mare. Erano gli anni in cui le città si ricostruivano così, fin da piccolissimo, non facevo altro che osservare la costruzione del meraviglioso urbano. Mi piacevano i tanti buchi che, da li a poco, avrebbero accolto case e palazzi. Il loro essere un modo a volte violento, a volte sorprendentemente leggero, di violare la terra. Il sostituirsi con un vuoto improvviso a un campo, per accostare tra loro, poco dopo, muri bucati da finestre e balconi.Non credo però che sia stato questo a farmi scegliere d’essere architetto. Mi ha rapito piuttosto il carattere collettivo di questo lavoro ( il costruire) e l’aver scoperto nel disegno la sua “parola” Per questo, apprezzando le tue “ narrazioni per quadernetto e matita” mi sono permesso delle segnalazioni didattiche di cui sopra che Enrique sembra aver condiviso. Continuerò con curiosità a sentire le tue parole di carta che, magari, capitando a Napoli mi piacerebbe intercettare. Ciao a te e a Enrique che ho imparato a conoscere ( e a ammirare) grazie al tuo prezioso lavoro. Antonio.